Sul Bello
Quando Aristotele, nella Poetica, afferma che la tragedia “è più filosofica della storia”, sta fondando la moderna teoria dell’arte. Fino a quel punto l‘arte era parte o di un rituale religioso o di una convenzione politica. Che è anche ciò che per gli africani fu la loro arte prima che la scoprissero Modigliani e Picasso. Aristotele chiarisce il posto che l’arte occupa nel rapporto dell’uomo con il mondo. Spiega, prima di tutto, che è un atto culturale. E che come cultura si fonda sul linguaggio, l’unico strumento che l’uomo abbia per conoscere il mondo, strumento, tra l’altro, specifico dell’uomo. La neurologia e fisiologia moderne confermano l’intuizione di Aristotele. E anche la linguistica. Chomsky vi ha dedicato un saggio: Perché solo noi?
L’arte, dunque, è un momento della conoscenza. Hegel approfondisce la riflessione aristotelica. Il linguaggio è lo strumento della poesia. Ma le altre arti hanno per strumento i cinque sensi. La pittura la vista, la scultura il tatto, l’architettura lo spazio, la musica la percezione del tempo. Il linguaggio è lo strumento della poesia e ciò l’avvicina alla filosofia e alla scienza. Oggi non accettiamo più la gerarchia hegeliana delle arti. La poesia non appare più come l’arte superiore alle altre perché usa la parola, come fa anche la filosofia. Nelle altre arti c’è un momento della conoscenza altrettanto importante: la pittura organizza la nostra visione delle cose, la scultura dà ordine al nostro tastarle, sentirne il volume, l’architettura organizza lo spazio dentro cui viviamo, la musica misura la nostra percezione del fluire del tempo.
Perché riassumo queste idee sull’arte da Aristotele a Hegel? Perché credo che oggi abbiamo il bisogno di ritornarci su, di rifletterci. Troppo banale, semplicistica, appare intorno, nel mondo, la proposta dell’arte, e ancora più l’immagine che se ne vuole dare, di cosa bella, ideale, consolatoria. Ciò fa parte della comunicazione dei mass-media, certo. Gli artisti, per fortuna, non ne tengono conto. Ma nell’opinione comune è diffusa l’idea che la bellezza sia lo scopo dell’arte, la bellezza, non la conoscenza, e che anzi la bellezza sia un dato oggettivo che esiste in natura e che l’artista riproduce nella sua opera. Radio3 ha dedicato un’intera giornata proprio a questa idea della bellezza. Che più falsa, più illusoria, più semtimentale non si può.
Ho così letto, ascoltato sulla Bellezza molti luoghi comuni, molte banalità. Ho sentito molte bocche riempirsi della parola bellezza, spesso contrapponendola al mondo che sarebbe brutto o alla natura che noi pervertiremmo. Il mondo non è né bello né brutto: è. Siamo noi che ci leggiamo bruttezza e bellezza. La Natura, poi, non è qualcosa fuori di noi, che guardiamo, ma è la stessa realtà in cui viviamo immersi. L’idea del bello è un’idea, non una realtà. Il sole che tramonta e fa rosso l’orizzonte non è né bello né brutto, è solo un fenomeno naturale effetto della rotazione della Terra. Siamo noi che lo investiamo con l’idea del bello. Il bello è un’esperienza soggettiva, tanto è vero che il modello di bellezza cambia tra popolo e popolo e nelle epoche. L’estetica, la disciplina che vi riflette, non a caso è denominata con la parola greca che definisce la sensazione, aisthesis, l’estetica è dunque la disciplina che si occupa delle sensazioni, e in particolare delle sensazioni che riguardano ciò che chiamiamo “belle arti”. Ma che l’arte sia il bello è un’idea recente. Non va più indietro del neoclassicismo settecentesco, epoca tra l’altro in cui nasce l’estetica e l’espressione “belle arti”.
Gli antichi, il Medio Evo, il Rinascimento, il Barocco, nell’arte non inseguono il bello ma un’idea di realtà. Aristotele, che è il primo pensatore che riconosce una funzione di conoscenza all’arte, come s’è visto, è anche il primo a delimitarne il campo, quando afferma che l’arte è il campo del verosimile; si badi: non del vero, ma del verosimile. Dopo Aristotele, un filologo alessandrino ha teorizzato che la poesia dicesse il “sublime” (si badi: il sublime, non il bello). Nel Medio Evo si arrivò a sostenere che fosse un’imitazione dell’opera divina, anzi addirittura dell’attività divina, lo scrive San Tommaso, per essere più precisi, e Dante lo riconferma. Nel Rinascimento che fosse la misura delle proporzioni, regolata dal numero. Tanto in poesia che in pittura che in architettura che in musica. Nel Barocco che cogliesse invece le contraddizioni del reale, non il reale, ma le sue storture. Infine con l’Arcadia e poi con il Neoclassicismo entra questa idea del Bello, in Hegel e nei romantici del Bello ideale. Palladio, Raffaello, Canova, Rossini diventano i modelli di questa bellezza ideale. Poi abbiamo il Naturalismo, in Italia il Verismo, e l’Espressionismo, ecc. ed è storia contemporanea.
Oggi, nella cultura di massa, il bello è degradato a sospiro sentimentale, a vuota parola che indica qualcosa che ci mancherebbe. Viviamo nella più piatta palestra di stucchevole sentimentalismo. Il bello diventa un sogno piccolo borghese di buoni sentimenti, di amore centellinato, centellinatissimo, non sia mai che rischiamo troppo: quasi Mulino Bianco.
Per fortuna, nel cinema, nella pittura, in teatro, esistono artisti che ce ne mettono in guardia. A tutti gli spasimanti sdolcinatissimi evocatori del bello, di questo bello edulcorato ed edulcorante, consiglio la lettura del teatro di Sarah Kane, perché rimettano i piedi sulla terra. Se non sanno chi sia, s’informino sulla rete, mi pare che qualche “play” sia scaricabile nella lingua di Shakespeare, in ogni caso esiste in libreria anche un’edizione italiana dei suoi pezzi teatrali (Einaudi).
L’arte è stata attenta in ogni epoca a registrare anche il brutto, il cattivo, la sofferenza, il male. E comincia molto presto. La peste nel campo acheo, Iliade. L’interrogazione dei morti, Odissea. Ho letto voci indignate, su Facebook, perché sostenevo che il bello non è lo scopo dell’arte, che anzi il bello in sé non esiste. Ho letto voci in estasi per la bellezza di un quadro di Raffaello – genio “tutto italiano”, “che il mondo c’invidia” – peccato che anche Raffaello non inseguisse affatto chi sa quale bello ideale, bensì solo l’armonia delle proporzioni con cui si costruisce un dipinto. Armonia che deve sorreggere l’invenzione anche quando si ritrae una tragedia: deposizione di Cristo, incendio di Borgo.
Guardatevi il Trionfo della Morte di Buffalmacco nel Cimitero di Pisa e osservate attentamente la bellissima Pala d’Altare dell’immenso Grünewald, che si vede a Colmar, uno dei massimi pittori del Rinascimento, è tedesco, non italiano. Ma la grandezza ignora i confini nazionali. Il sovranismo è una peste politica. Ma nella cultura e nell’arte è addirittura un’assurdità.
Qualcuno, per queste mie osservazioni alla fine è esploso, ha protestato: ma come mi permetto di scrivere che a Radio 3 si dicono banalità sulla bellezza. Al solito, o mi sono espresso male, incompiutamente, o non si vuole cogliere il nodo della questione: che è proprio il parlare in sé di bellezza, come di qualcosa di oggettivo, a essere banale. Poi, certo che la Grande Fuga di Beethoven anche per me è “bellissima”, che il Tristano è “bellissimo” e anche Macbeth, sia Shakespeare sia Verdi. E che Roma, guardata dalla terrazza del Pincio o di Villa Medici o del Gianicolo, è “strabellissima”. Ma è un bello che non ha niente a che vedere con ciò che in giro, anche alla radio, s’intende per bellezza
E allora perché tiro in ballo la sezione aurea, e riscontrandola perfino in elementi naturali, ha chiesto qualcuno. Ma la sezione aurea non ha niente a che spartire con la bellezza, è una proporzione, quella che è sembrata più adatta al farsi del cosmo e sulla Terra al sorgere e modellarsi della vita. Che a noi poi sembri bella è un altro discorso. Non a caso, tanto per fare un esempio, Prassitele elabora un canone di proporzioni, non di modelli di bellezza. E nel Rinascimento si parla di armonia, equilibrio, quello che il barocco distruggerebbe. Di bellezza anche gli antichi parlavano a proposito degli uomini e delle donne, ma nel senso di persone, oggetti che suscitano piacere a vederli, a goderne. Quindi, di nuovo, non una realtà oggettiva, ma una sensazione soggettiva. Si confonde insomma il bello con il piacevole. Diogene Laerzio racconta un divertente episodio della vita di Aristotele, che non era per niente quell’uomo severo e accigliato che pensiamo. Una volta uno gli chiede: “Ma come mai se a parlare talora è un bel ragazzo, quando lo si ascolta, anche se dice sciocchezze lo si ascolta con attenzione?” Risposta di Aristotele: “E’ la domanda di un cieco”.
Nasce comunque in architettura, l’idea che un’armonia possa essere realizzata rispettando le proporzioni della sezione aurea. Per esempio nel Partenone. L’idea che la casa di un dio debba riprodurre l’armonia della vita celeste, la sua eudaimonia. Una vita senza contrasti, di perpetua beatitudine. I miti, poi, in realtà ci restituiscono un’idea più complessa e perfino tormentata della divinità. L’antropomorfizzazione del divino raggiunge in Ovidio l’apice: Apollo che piange la morte di Giacinto ucciso dal disco dal dio stesso lanciato. Eppure proprio Ovidio poi riassorbe anche questa inquietudine nella contemplazione dell’armonia del cielo, con cui conclude le Metamorfosi. Ecco qua che anche per un dio il raggiungimento di un equilibrio, di una consapevolezza, e dunque dell’armonia delle cose, si raggiunge solo attraverso una profonda esperienza del dolore. Quella che fa dire al Coro dell’Edipo a Colono di Sofocle che la cosa migliore per l’uomo è non essere nato. Elogiatemi, adesso, la bellezza di questo Coro. Che, comunque, sì: è poesia sublime. Sublime, appunto. Non solo bella.