Covid-19: letalità apparente e letalità plausibile

In una recente ricerca pubblicata dall’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) si tenta di far luce su alcune importanti questioni di ordine analitico che assillano chiunque approcci la progressione epidemica in Italia registrandone le anomalie. Tra queste, l’elevato tasso di letalità. Aggirantesi intorno al 10% stando al contagio rilevato. Un numero che fa rabbrividire. Soprattutto se confrontato col dato di altri paesi. La cui conta delle vittime si assesta su percentuali decisamente più basse: in Cina intorno al 4%, in Germania, addirittura, intorno allo 0,5%.

Ma perché in Italia si muore di più? C’è una correlazione con l’inquinamento? Il lockdown non si sta dimostrando una strategia efficace? Le variazioni sociali (ad esempio, la composizione del nucleo familiare medio) sono determinanti? Lo stress cui è sottoposto il sistema sanitario non garantisce efficienza nelle cure? Ci sono differenze significative sotto il profilo climatico? Il virus è mutato geneticamente diventando più aggressivo?

Per l’ISPI ciascuna di queste ipotesi lascia il tempo che trova. Poiché il dato sulla letalità messo in circolazione non si riferisce al numero delle persone effettivamente contagiate, bensì al numero di persone risultate positive al tampone. Un dato che in termini statistici viene definito CFR (case fatality rate), ossia tasso di letalità apparente. Ben distinguibile dall’IFR (infection fatality rate), da tradurre con tasso di letalità plausibile.

Sul piano statistico, secondo l’ISPI, la letalità apparente “è un indicatore inaffidabile” perché tende a non intercettare gli asintomatici e i paucisintomatici, una fetta consistente dell’intero contagio. E ciò accade per diverse ragioni.

In primis, i contagiati dal quadro sintomatologico lieve o assente, in generale, non ritengono di doversi sottoporre al test credendosi non malati o, comunque, non affetti da coronavirus. In secondo luogo, quando l’epidemia si incammina verso la sua fase espansiva, nel compiere rilevamenti, le autorità sanitarie sono costrette a operare delle scelte che consentano di ottimizzare le risorse a disposizione: eseguire il tampone “persino al sottoinsieme di persone sintomatiche” diventa difficile, dunque, “si procede per gravità, limitando i test ai casi più critici”, che poi sono gli stessi che, purtroppo, hanno maggiori probabilità di inasprire le tabelle dei decessi.

È palese, dunque, come il progredire della curva epidemica e l’annesso cambio di politica sui tamponi impattino sul monitoraggio del contagio sommerso e sul dato della letalità apparente. L’impennata (9,9%), in Italia, è coincisa, non a caso, con l’aggravarsi dell’emergenza e con un uso più mirato dei test: si pensi che nei giorni dell’esordio tra i nostri confini del coronavirus il CFR si assestava intorno a un meno spaventoso 3%, scendendo, addirittura, fino al 2% tra il 25 febbraio e il 2 marzo.

Ad ogni modo, l’ISPI conclude il suo studio stimando la letalità plausibile da Covid-19 intorno all’1,14%, con “un intervallo di confidenza del 95%” che va dallo 0,51% all’1,78%. Calcolando un contagio reale pari a 9,6 volte il contagio ufficialmente registrato. In Cina studi condotti con le medesime metodiche stimano un tasso di letalità plausibile dello 0,66%, in Inghilterra dello 0,9%. Percentuali sensibilmente più basse dovute all’età media inferiore delle rispettive popolazioni.

Naturalmente, il fatto che la letalità plausibile risulti di molto inferiore alla letalità apparente nulla toglie al drammatico numero di morti che va aggiornandosi di ora in ora. E se per ottenere una proiezione realistica del contagio occorre moltiplicare per 9,6 il dato parziale dei positivi, significa che la capacità espansiva dell’epidemia deprime le più rosee aspettative di contenimento rapido. Facendo innalzare il livello di guardia, comprovando la giustezza delle rigide misure applicate e scoraggiando, si spera, il protagonismo di vari ed eventuali statisti asintomatici in vena di alleggerimento immediato delle restrizioni.