È morto Gianni Mura. Siamo orfani dei suoi cattivi pensieri

Gianni Mura si è spento a Senigallia per un arresto cardiaco. Era milanese e aveva 74 anni. Scriveva per Repubblica dal 1976. Non sono riuscito a trattenermi dallo scrivere queste righe, probabilmente superflue, certamente fuori dalle regole editoriali di Sonar. Mi si conceda la licenza.

Ha accompagnato la mia passione per la lettura dei giornali per circa 40 anni. Ha segnato il giornalismo italiano. Era interista e come si deve al vero interista era supercritico con l’Inter, quando ne parlava. Per pudore, probabilmente, per autocensura, mai all’inizio dei commenti del lunedì.

È stato capace di rappresentare, spiegare, analizzare, disegnare lo sviluppo di una partita, il passo di una squadra e di una corsa ciclistica, le imprese dei campioni, minori sopratutto e anche fuori dal campo, solo con le parole, senza ricorrere ai numeri. A dispetto, così, dell’asciuttezza irraggiungibile del sue stile, i suoi pezzi agitavano l’immaginario e l’emotività, coinvolgevano l’intelletto e le più profonde radici culturali di ciascun lettore.

Calcio e il ciclismo erano il filtro attraverso cui Mura ha raccontato il contemporaneo, la società, gli uomini le loro imprese e le loro cadute. Non si può per questo aggettivare il suo giornalismo come sportivo.

Di tutte le sue rubriche “Sette giorni di cattivi pensieri” è quella che ha dato più il segno del suo approccio. Usciva la domenica, in origine prima delle partite, quando le partite si giocavano ancora solo la domenica, ed erano due colonne di commenti fulminanti su fatti della settimana, non solo e non sempre sportivi, comunque destinati ad oblio e di cui lui, invece, facceva tracce di un radar. Tweet ante-litteram, su carta, scovati, scavando nelle pagine interne di fogli di periferia. Un racconto del mondo a partire da episodi minimi. Una pagella con tanto di voti ispirati da una lettura critica ed etica di piccoli fatti simbolici. Rigoroso sino alla ferocia (mi sorprese, e deluse anche, un suo violento attacco Valerio Visintin, critico gastronomico del Corriere della Sera, di cui non ho mai inteso né indagato le ragioni), non è mai stato moralista.

Era, del resto, un goloso e uno sfacciato beone antisalutista, nelle sue cronache gastronomiche e talvolta anche in quelle sportive si leggevano tracce di vino e formaggio attraverso il fumo della perenne sigaretta.

Mai potremmo rammaricarci di più della fine dei cattivi pensieri