L’apocalisse delle zeppole

Il 19 marzo 2020 entrerà nei libri di storia dell’alimentazione e di ghiottoneria come il giorno dell’Apocalisse della zeppola di san Giuseppe. Ciò che vi è di peggio è che lo sterminio si è consumato per mano dell’uomo e non dell’invisibile odiato mostriciattolo, di dubbia e abominevole origine (si parla di pipistrelli e pangolini).

L’Italia, infatti, ha scelto di pagare il prezzo della quarantena nel tentativo di contenere il contagio da coronavirus. É una delle strade possibili e ha conseguenze, come hanno spiegato gli scienziati di Lancet (vedi se tocca citare la più autorevole rivista scientifica del mondo parlando di zeppole) in un articolo del nove marzo scorso.

Ciò di cui, però, gli scienziati non hanno tenuto in debito conto nella loro analisi è il prezzo in zeppole del distanziamento sociale. I grafici e le curve con cui si confrontano soluzioni alternative sono falsati da questa omissione.

La quarantena ha sterminato zeppole e zeppolatori, definendosi qui tali tanto chi le zeppole le produce quanto chi le mangia. La percentuale di mortalità è pari al 99%, l’1% delle zeppole avendo gratificato le fauci e ogni particella del corpo dei fortunati che si erano sopravanzati nel consumo.

La serrata imposta a pasticcerie e bar ha determinato la morte disperata di uova, amarene, latte, burro, farina e marmittoni d’olio destinato a ribollire quando già fremevano d’eccitazione in vista del fulgido amplesso della loro unione consacrata al santo più buono.

Né può pensarsi, del resto, che codesti prelibati mattoncini (volgarmente definiti ingredienti) di quella costruzione leggiadra, aerea, piumosa che è la zeppola, possano trovar riparo nelle case degli internati. Oh lettore, la zeppola non è la pizza, non prevede l’astuzia del pur benedetto e redivivo lievito di birra per far gonfiare la pasta. La zeppola è verità. La zeppola è espressione di sublime artigianalità pasticcera. La zeppola è tecnica, studio e lavoro. La zeppola è alchimia sopraffina. La zeppola è fritta. Fatta in casa non è.

Mi invade a questo punto il cervello, mentre scrivo l’immagine del lettore o più facilmente della lettrice che protesta la grandiosità della propria arte zeppolaria. Vade retro, per favore. Siete in fallo, d’altronde l’ho già detto, la zeppola di casa non è. Non si appelli giammai, d’altro canto, zeppola il più semplice bigné, stessa pasta, ma cotta nel forno. Vuoi mettere la facilità.

Si badi, non è astrusa teoria del giornalista goloso, è storia della gastronomia e della letteratura. Ippolito Cavalcanti nel suo “Cucina teorico – pratica” pubblicato a Napoli nel 1837 scriveva:

Per fare le zeppole, piatto di rubrica in Napoli … farai … la pasta bugné. Fatta questa pasta la porrai sulla tavola di marmo, o sul pancone verniciato d’oglio e rimenerai la pasta, della stessa ne farai tanti tortanetti, non molto piccoli, e li friggerai con strutto bollentissimo, potrai ancora con oglio; appena fatta una piccola crosta li rivolterai, e con un ferro puntato espressamente o con un puntuto di legno li pungicherai dovendo vuotarsi così ed allora le zeppole saranno ottime…

Ancor prima, nel 1793, Vincenzo Corrado nel suo trattato “Il cuoco galante” scriveva:

Fatta morbida questa pasta (la pasta bigné, di cui il Corrado fornisce una dettagliatissima ricetta) si friggerà in bocconi, o pure paffata per siringa, avvertendo di non far troppo riscaldare lo strutto…

Mai avrebbero potuto immaginare il Corrado e il Cavalcanti che a distanza di secoli l’uomo avesse imposto l’Apocalisse alle zeppole che essi stessi apprezzavano secoli fa.

Oggi, allora, dobbiamo unirci a celebrare la vita, bere, ridere e cantare. Dobbiamo essere fermi nel credere in futuro immediato in cui torneranno a friggere le zeppole.

Andrà tutto bene, torneremo a mangiare le zeppole!