Tra i tanti morti del virus non mettiamo anche il pensiero
In Cina ci sono stati 81.048 casi di contagio da Covid-19 clinicamente testati in laboratorio e 3204 morti. In Italia, mentre scrivo, ci sono stati 20.603 casi positivi e 1809 morti. Alla fine, se continuerà così, in Italia ci saranno più morti che in Cina. Come è possibile? La risposta non è per nulla semplice, ma qualcosa ci dice che la si dovrà trovare in quel luogo inospitale che c’è tra le statistiche e la dinamica di contagio da un lato e la situazione concreta dall’altro. Insomma, che cosa è realmente accaduto in Lombardia tra febbraio e marzo?
Mi pongo domande sapendo di non avere risposte. Ma cos’altro potrei fare nella situazione in cui mi ha messo il governo obbligandomi a non uscire di casa? Forse, pregare. Ma la mia preghiera è il pensiero e il lavoro che comporta. Cerco di farlo secondo la regola benedettina che mi sono dato: cogita et labora. Non è poco. In questi casi, infatti, il libero pensiero e il suo esercizio espressivo sono una risorsa importante per continuare a sopportare la vita ed a supportarla in futuro. Eppure, tra i tanti morti dell’epidemia – sui quali poi, analizzando le cartelle cliniche, bisognerà indagare al meglio per capire anche il senso della reazione – rischia di esserci anche un illustre defunto: il pensiero. Proprio così.
Il presidente del Consiglio, il professor Giuseppe Conte, anche ieri ha fatto un altro appello all’unità, al senso della comunità e alla necessità di tralasciare le polemiche. Come non essere d’accordo? Nel momento del bisogno si agisce, si opera, si aiuta. Non è proprio il caso di mettersi a esprimere giudizi, di sollevare obiezioni o, peggio che andar di notte, mettersi a dare lezioni a chi sta affrontando a mani nude il dramma umano e ospedaliero. Eppure, mentre siamo chiusi nelle nostre case e contiamo i contagiati, i ricoverati, gli intubati, i guariti e i morti, abbiamo il dovere di pensare con la nostra testa o dobbiamo consegnare allo Stato anche il cervello affinché gli venga fatto un lavaggio completo?
La situazione che tutt’Italia e tutti gli Italiani stanno vivendo è unica nella storia nazionale. Non esiste alcun precedente. E anche pagine storiche come Caporetto o l’8 settembre o tragiche come il terremoto di Messina o quello relativamente più vicino dell’Irpinia sono richiami inutili. Non ci dicono granché nulla. Il caso di un’epidemia e del Paese fermo come un cimitero è unico nella nostra storia. L’eccezionalità non è l’epidemia ma il deserto civile con gli Italiani che si sono ritirati nelle case e un’aria generale di coprifuoco che si avverte sulla pelle ma ancor più nell’animo. Ma proprio per questo motivo non possiamo rinunciare alla risorsa fondamentale della libertà di pensare o criticare o, come amava dire la Arendt, alla capacità di giudizio perché abbiamo il bisogno vitale di capire.
In questa storia c’è qualcosa che non torna. Come se tutto fosse stato un grande problema di gestione e comunicazione che si è trasformato in un sentimento di panico nazionale. Fino a quindici giorni fa la vita civile e democratica era pressoché normale nella sua trasandatezza. Poi poco alla volta qualcosa è iniziato ad andar storto e poi sempre più storto fino a precipitare – come si è iniziato a dire con formula retorica ma calzante – nell’ora più buia.
Abbiamo toccato il buio totale quando da più parti, dopo aver fortemente limitato e addirittura negato diritti e libertà, si è iniziato a sostenere che il modo migliore per reagire ad un’epidemia è quello statalista di una dittatura e quello totalitario della Cina, mentre la democrazia con le sue leggi, le sue istituzioni, le sue limitazioni ai poteri, le sue garanzie la sua società aperta e il suo pluralismo è poco adatta a far fronte ad un rischio epidemiologico. C’è voluto davvero poco, lo spazio di qualche giorno e il sentimento diffuso della paura e delle preoccupazioni, per accantonare non solo le libertà pratiche ma anche la cultura della libertà che dal profondo della nostra anima cristiana ci insegna che proprio lei, la libertà, è il mezzo e il fine della vita democratica.
Io non solo credo ma so che il pluralismo, le risorse della società civile, le imprese, gli enti locali e il Parlamento non sono un impedimento ma una risorsa per affrontare crisi di natura sanitaria ed epidemica. Può darsi che ci siamo fatti trovare impreparati. Può darsi che ci si sentisse immuni da tutti e soprattutto da un morbo avvertito come un qualcosa di lontano, lontanissimo nello spazio, dall’altra parte del mondo. Può darsi che le nostre strutture sanitarie siano molto fragili – soprattutto al di fuori della Lombardia – e che lo stesso governo sia stato preso da una sorta di paura panica in cui a furia di evocare da più parti la paura e di gridare “al lupo, al lupo” alla fine la paura si è veramente presentata alla porta del governo. Può darsi tutto, ma a maggior ragione tutto ciò ci deve insegnare che non si può reagire negando ma valorizzando e esaltando le libertà perché da solo, come è chiaro in queste drammatiche ore, lo Stato/governo non ce la fa. In nessun settore: sanitario, scolastico, finanziario, economico (tanto per intenderci: un crollo del Pil tra l’8 e il 10 per cento e il debito pubblico salirà verso il 150 per cento). La risposta giusta non è lo Stato padrone ma la cultura della libertà in cui lo stesso Stato esiste nei suoi limiti.
Ecco perché tra i tanti defunti di questa epidemia – in cui l’80 per cento degli infettati ha una malattia debole, il 15 per cento media e il 5 per cento critica – cerchiamo di non mettere anche la nostra libertà di pensiero che è il valore irrinunciabile per difendere la democrazia che, come amava dire con arguzia Churchill, quello vero, è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle altre forme che si sono sperimentate finora.