Frida Kahlo, la pittrice senza opere
Esistono opere d’arte talmente note da aver sovrastato nel tempo la fama del proprio autore. Se la Gioconda resta probabilmente uno dei dipinti più famosi del mondo, la sua celebrità non getta ombra sulla figura di Leonardo da Vinci, semmai la rafforza. Non possiamo dire lo stesso, per esempio, di “American Gothic”, celebre dipinto del 1930, oggetto di parodie, meme, infinite rielaborazioni più o meno giocate sulla fredda e austera posa dei due contadini protagonisti della tela. È molto probabile, infatti, che siano in pochi – almeno fra i non specialisti – a riconoscerne la paternità del pittore americano Grant Wood, non prima, almeno, di una rapida ricerca su Google.
Già, i motori di ricerca: quando cerchiamo rapidamente informazioni su uno scrittore, un evento storico, una data, possiamo limitarci alle fonti scritte, quando invece si tratta di un artista visivo, il passaggio ulteriore consiste nel cercarne le immagini.
Una delle prove empiriche per capire la pervasività e la percezione generale di un artista nel panorama contemporaneo, si nasconde in filigrana nell’indicizzazione dei risultati della ricerca per immagini di Google.
Se “American Gothic” si prende da solo oneri e onori del suo papà Grant Wood, digitando “Frida Kahlo” la situazione si ribalta completamente. Davanti ai nostri occhi, sullo schermo, si materializza infatti un mosaico di possibili risposte alla nostra ricerca, in cui la pittrice messicana appare in tutto il suo sofisticato abbigliamento, nell’acconciatura e nei suoi abiti colorati che molto devono alla tradizione ancestrale di un Messico post-rivoluzionario e in grande fermento creativo ma, amaramente, “così lontano da Dio ma così vicino agli Stati Uniti”, come ebbe a dire Porfirio Diaz.
Frida bella, Frida “un tipo”, con quelle sopracciglia così marcate, Frida forte e Frida fragile… Ma cosa manca in questo affascinante panorama? Le opere, ovviamente, la sua pittura: ad oggi, il primo risultato relativo a una sua tela lo troviamo nella quarta fila, alla posizione #19 della classifica di “Big G”, molto oltre i suoi numerosi ritratti fotografici.
Frida Kahlo è oggi esplosa come icona, la sua immagine ha scalzato via quasi completamente il suo linguaggio di pittrice. Il tutto è partito, a naso, con l’omonimo film biografico del 2002, in cui Salma Hayek vestiva i panni della protagonista. Ma è solo nell’ultima manciata di anni che su di lei, sul rapporto sofferto col proprio fragile corpo o quello complicato con l’ingombrante figura di Diego Rivera – pittore muralista – si sono ormai cimentati scrittori, poeti, drammaturghi, giornalisti e biografi di ogni specie. Tanto è vero che in ogni libreria generalista, anche quando lo scaffale di arte è ridotto a qualche catalogo patinato di fiori, di impressionisti e di fiori impressionisti, o al massimo l’ultimo volume a firma Vittorio Sgarbi o Philippe Daverio, non può mancare l’ennesima biografia dell’artista “dalle sopracciglia unite”, come più volte ho sentito definirla (e come appare, in versione Lego, in una recente mostra romana).
Ma in tempi di contaminazioni virali di ben altra natura, non poteva non abbattersi su di lei anche “il virus delle mostre senza opere”, secondo le parole di Vincenzo Trione (cfr. T. Montanari, V. Trione, Contro le mostre, Einaudi 2017), ovvero quelle spettacolari messinscene con proiettori, schermi, oggetti, ricostruzioni, suoni, sapori, rumori e odori che promettono un’irresistibile esperienza “immersiva” (e in cui, va da sé, le opere sono le vere assenti).
Su di lei è in corso una mostra di questo tipo a Roma, dal suggestivo titolo di “Frida Kahlo. Il caos dentro”; un’altra, con foto di Nickolas Muray, ricostruzioni del letto della pittrice e del suo tragico incidente in tram – ma inevitabilmente senza dipinti – ha appena aperto i battenti nella Palazzina di Caccia di Stupinigi, alle porte di Torino.
Possibile porre fine alla sovraesposizione mediatico-ludica di Frida e di altri grandi nomi della storia dell’arte? Potremmo seguire il suggerimento dello stesso Trione: «Non dobbiamo dire “basta” a Caravaggio, a Van Gogh, a Monet, a Cézanne, a Picasso, a Klimt, a Dalí, a Warhol, a Haring e a Basquiat» – e a Frida Kahlo, aggiungiamo noi. Piuttosto, «abbiamo il dovere di continuare a rileggerli e a riscriverli, affrontando le incognite nascoste nei loro quadri e nelle loro sculture. Dobbiamo portarci al di là di ogni “riduzionismo culturale”, evitando di riproporre il già-detto, il già-visto».
Oppure proviamo a rompere il sistema dall’interno: il pubblico vuole un’esperienza (meglio, una experience, come titolano molte di queste mostre digitali)? E allora basta coi soliti nomi, proponiamo qualcosa di inedito e davvero sconosciuto ai più: un pittore giottesco del XIV secolo, per dire. Allestiamo una “Taddeo Gaddi Experience”: maxischermi, altissima risoluzione, luci soffuse e grandi bagliori di pittura murale “sparati” per mezzo di agili pixel. Ma gli spettatori vogliono una vera immersione, vogliono suoni e odori? Perfetto, provate a immaginare gli odori di una bottega medievale. Provate a sfogliare, per esempio, quello straordinario trattato di tecniche e materiali pittorici che è il “Libro dell’arte” di Cennino Cennini, in cui l’autore – agli inizi del XV secolo e in lingua volgare – ci informa dettagliatamente, tra l’altro, su come preparare la colla di caravella («la quale si fa di mozzature di musetti di caravella, peducci, nervi, e molte mozzature di pelli») o come lavare via la pittura da un volto («togli rossumi d’uovo, a poco a poco gli frega alla faccia, e con la mano va’ istropicciando. Poi togli acqua calda bollita con romola, o ver crusca, e lavagli la faccia: e poi ripiglia un rossume d’uovo e di nuovo gli stropiccia la faccia»).
Non resta che diffonderne l’afrore fra le sale della mostra: sarà la puzza di pelli animali bollite, di uova marce e di vernici la migliore alleata contro “l’immersività” delle mostre senza opere. Con buona pace della povera, inconsapevole Frida.