Delhiners, gente di Delhi
Chi ama l’India lo sa: non si sa esattamente perché la si ama. E’ sporca, è povera, è infetta; a volte è ladra e bugiarda, spesso maleodorante, corrotta, impietosa e indifferente. Eppure, una volta incontrata non se ne può fare a meno. Si soffre a starne lontani. Ma così è l’amore : istintivo, inspiegabile, disinteressato. Sono passati sette anni da quei miei giorni a Delhi, ed ancora oggi credo che le parole di Tiziano Terzani siano le migliori per descrivere il “mal d’India”.
Arrivai a Delhi una mattina di dicembre, lasciandomi dietro un inverno appena iniziato. Quell’aeroporto mi ricordava tanto il capanno sul fiume Reno, tra Sacro Romano Impero e Francia, dove si racconta che la giovanissima Maria Antonietta venne denudata dei suoi panni per vestire nuovi abiti francesi. Si aprirono le porte scorrevoli e l’India mi prese a schiaffi in faccia.
Gigante. Il caos. Il frastuono dei clacson. L’odore di cumino e di fogna. L’assalto dei tassisti e dei venditori. Il sole assente. I tassisti sono l’anima di Delhi: ti accompagnano, ti fanno da guida turistica, da consulente psicologico e molto spesso ti portano dove dicono loro, non dove vuoi andare tu, per fortuna. Delhi è un luogo strano, come un grandissimo stanzino in cui il buon Dio ha deciso di scaraventare tutto: il progresso e la fame, i jeans e i sari, le minigonne e le mani dipinte con l’henné, Jaguar e tuc tuc, l’emancipazione e le caste.
L’umanità di Delhi è variopinta e pittoresca: uomini distinti in doppio petto con ventiquattro ore al seguito che si fermano a pisciare ovunque capiti con massimo candore. Donne anziane avvolte in metri di sari che scopre le pance gonfie e aggrinzite. Hare Krishna di arancione vestiti vibrano al ritmo della loro concentrazione. Anziani, in gruppi, fermi a bere matcha davanti ai cantieri come indiani umarell.
E bambini, tanti bambini. Bambini che ti frantumano. Come “Chapati”, che tutte le sere chiedeva l’elemosina davanti al mercato di Janpath, oppure mezzi nudi in enormi catini per le abluzioni quotidiane, assonnati nei loro zainetti, chiassosi nelle loro divise scolastiche. Tanti bambini perduti. Non ho mai visto occhi così grandi.
A lavoro Miss Mary è pesante di tempo e ha le mani spellate dai detersivi. Ci incontriamo sempre la mattina presto, al suono di detersivo al limone dozzinale, lei mi sorride, io le sorrido. Un giorno questo nostro rituale viene interrotto bruscamente: è davvero presto e il suo capo è già a lavoro, tronfio. Miss Mary mi saluta abbassando la testa e accennando quasi un inchino, sfugge al mio sguardo quasi a implorarmi di non darle confidenza. La sua deferenza mi addolora e capisco che le è “imposta” dall’alto: le caste non sono mai morte.
“Are you indian Miss?”È la frase che mi accompagnerà in tutti i miei giorni indiani. A casa, in Italia, tutti mi avevano sempre detto che ho dei tratti indiani, ma non ci avevo mai creduto, imputandone la “colpa” a un po’ di kajal di troppo e qualche foulard sulla testa. In ufficio il personale si rivolge a me sempre in hindi e mi chiede quando sono stata adottata. Al mercato di Janpath, stesse scene. Un ragazzo bellissimo, da dietro al bancone mi fissa: “You have indian eyes, Miss!”.
L’apoteosi della mia indianitudine presunta avviene di domenica, una volta al cospetto del Taj Mahal. Vengo praticamente rapita da una guida turistica: Shakir, ha la mia stessa età. Io non credo di essere mai stata corteggiata a quel modo. Ma questo ragazzotto indiano sembra fare sul serio: strappa fiori per me qui e lì, mi prende in braccio ad ogni gradino, mi guarda fisso negli occhi senza che gli possa sfuggire. Azzarda anche alla possibilità di sposarci se io volessi e vuole “trattare” con mio padre. Si è convinto che io sia per metà indiana perché, a suo, dire è impossibile che io abbia quella faccia senza essere figlia o nipote di un indiano/a. Quando torno a casa un test del DNA non me lo toglie nessuno.
Old Delhi, moschea di Jama Masjid. Mi tolgo le scarpe e avanzo sul piazzale con i miei imbarazzanti calzini. Improvvisamente un uomo mi prende per mano: emette dei suoni gutturali e mi trascina sui tappeti rossicci dove altri uomini pregano. Indica i miei piedi, non vuole che prenda freddo camminando sulla nuda pietra. Poi si fa dare in consegna la mia Nikon e inizia a ritrarmi da ogni angolazione incitandomi a sorridere. È’ lui che mi scorta e mi guida alternando quei suoni incomprensibili a gesti precisi e didascalici che descrivono alla perfezione quei luoghi. Non ho mai visto in vita mia una guida turistica…muta. Si, muta!
Jagath fa il cameriere da Pizza Hut. Avrà vent’anni e sorride sempre. Fuori menù servono una sorta di spaghetti aglio e olio che dona pace allo stomaco dopo tanto piccante. In attesa della pasta mi recapita la solita super coca cola no-ice no lemon–no tutto (la diarrea non me la posso proprio consentire a questo giro!). Passato il giusto tempo lo vedo avanzare verso di me con aria trionfale, porgendomi il piatto: l’odore di olio buono, l’aglio profumato, lo spaghetto perfettamente al dente e amalgamato. Dio, questo è un sogno. Jagath se la ride.
Quest’anno l’atmosfera natalizia non la sento proprio. È’ tardi e corro attraverso la hall dell’albergo dove trovo il concierge indaffarato attorno ad un alberello. Si sposta e con fare da istrione mi presenta il suo capolavoro: un piccolo spelacchio in salsa indiana adornato di palline e fili dorati. Ai suoi piedi un bue ed un asinello. “Miss, this is for you: it’s Christmastime in Italy!” Io resto basita. Scoppio in un pianto furibondo e liberatorio. In quella baraonda formidabile, per sopravvivere avevo dovuto per forza lasciare a casa i miei pensieri.
Chandni Chowk, dice la mia guida, è uno dei luoghi “meno raccomandabili” di Delhi. Ci vado. In metro, con solo qualche rupia in tasca e il passaporto. Sbuco dall’uscita della metropolitana come una talpa: spezie, frutta, paccottiglia, incensi, sonaglini, pellami, stoffe sgargianti, pachidermi e pappagalli. Qualcuno canta, i carretti avanzano su e giù senza meta ma senza sosta. I tuc tuc si intrecciano a moto da cross di bulli locali. Un ragazzo vuole vendermi delle fette d’ananas succosa innaffiati d’acqua, un’anziana donna mi offre mandarini, una ragazza dal bindi gigante mi insegue con le sue stoffe leggere color cannella. La mia indianitudine mi fa mimetizzare nella folla. In mezzo ad acque luride, polvere, ruderi in cemento tre uomini in abiti sgargianti parlano della rivoluzione. Omini ricurvi sull’asfalto decorano minuziosamente il selciato armati di minuscoli scalpelli. Portantini recano in testa enormi vassoi pieni di caffè alla turca e sfoglie dolci.
Ultima sera a Delhi. Io sono ammutolita. Oggi Jagath non è di turno. Chissà se lo sa quanto quei suoi spaghetti mi hanno coccolata. Janpath lane è deserta. Delle rupie che mi restano non so che farne: le avevo conservate per lasciarle alla piccola Chapati, che stasera non è in strada. La venditrice di tappeti dai capelli corvini ha chiuso il suo baracchino in anticipo. Delhi non mi da l’addio, mi ignora questa sera, cavalcando la mia malinconia con una nebbia fittissima che invade le strade.
L’indomani, un maggiolino color caffelatte mi porta in quell’aeroporto dove tutto è cominciato. Tra due giorni è Natale. La porta scorrevole mi si chiude violentemente dietro. Atterrata a Roma, ai controlli di frontiera non crederanno che io sia italiana. “Are you indian madame?”.